Vincenzo Marano nasce ad Aci Castello, in provincia di Catania, il 24 Agosto 1938. Frequenta l'Istituto d'Arte di Catania, in quegli anni animato da artisti, allievi ed insegnanti del calibro di Pippo Giuffrida, Ranno, Lazzaro, Franco Piruca, Piero Guccione. Nel 1957, Marano lascia la Sicilia per iscriversi all'Accademia di Belle Arti di Roma. In quel periodo pubblica disegni sulle pagine de l'Unità e conosce Renato Guttuso con il quale si lega in un rapporto di amicizia e stima reciproca. Nel 1964 tiene la sua prima Personale a Bari. Partecipa alla Quadriennale di Roma, in USA alla mostra itinerante Print Show Young European Artist e a Bruxelles alla Contemporary Italian and Belgium. Nel 1968 espone alla prestigiosa Galleria Zanini di Roma. Guttuso scrive: "Marano è una natura fortemente poetica ed ha doti specifiche di pittore, un linguaggio cioè specificatamente pittorico.
Ha un suo segno ed una sua tipica idea del colore che lo collocano tra i più significativi assertori della sua tendenza. E la tendenza è la pittura di figurazione ed impegno, che tenta di dare risposte e motivazioni ad un momento storico in cui un vento di rinnovamento sta per modificare i rapporti di forza. Si crede nella forza propulsiva dell'arte, nella sua capacità di criticare la società, nella possibilità per l'artista impegnato di cambiare il mondo". E conclude: "il pensiero della pittura, di ciò che deve dire con la pittura, lo possiede in modo totale". In quegli anni, Marano dipinge la figura femminile che arriva nelle sue tele direttamente dalle pagine patinate di Vogue ed Harpers Bazaar. Donne che, come dirà Duilio Morosini "sanno quello che si deve o non si deve fare, che si muovono in una dimensione di vetrine e neon, lo turbano come rappresentazione ordinata di un disordine estraniante. Ricopia l'oggetto del suo turbamento, lo dipinge finché non lo esorcizza, finché non lo deforma con il peso della sua fantasia, finché non lo trasforma in una sua creatura".
Il turbamento, che può nascere dalla visione di una fotografia, di un quadro, è il motore della ricerca pittorica di Vincenzo Marano. Nel 1969 torna in Sicilia. La spinta personale, in parte illusoria, verso una vita più autentica agisce sul suo divenire pittorico. Per la prima volta cerca nei quadri un rapporto diretto con la realtà. Le sue tele e la sua casa si popolano di tartarughe, granchi, ranocchie. Nasce cosi la mostra romana del 1970 alla Galleria Zanini che Duilio Morosini racconta in questi termini: "Animali alla deriva in città, sopra semafori bullonati, sfuggiti ad un immaginario diluvio, animali dipinti e disegnati con l'animo e la mano di chi ne contempli stupito e turbato ad un tempo la complicazione delle forme, l'asperità delle superfici, il diluvio è insomma quello che agita l'immaginazione dell'autore, ai quali l'urbanesimo e la tecnica appaiono come demoni da esorcizzare con i colori della natura". Nella fase successiva della sua ricerca pittorica, Marano torna ad un rapporto indiretto con la realtà, mediato dalle immagini fotografiche, per lui equivalenti alla percezione sensoriale oggettiva. Per raccontare il crollo degli ideali politici, Marano rinuncia al colore. Il grigio, il viola, il bianco sostanziano immagini intorno alle quali il mondo si è dissolto in un improbabile nero. Nel gioco di luce ed ombra è l'ombra che esce vincente, "un'ombra avvolgente che mortifica, nel senso letterale di dare morte, in questo caso la morte dell'anima mortifica l'esistenza, testimonianza della condanna del vivere" come efficacemente riassume Sergio di Biase . Alla fine degli anni '70, Marano attinge alla storia dell'arte come ad un immenso serbatoio iconografico ed emotivo. Nei suoi quadri, figure del passato dialogano con fotomodelle e entrano nella rappresentazione del quotidiano. "Ai bordi c'è solo la cornice - scrive Salvatore Silvano Nigro - e dentro la cornice il mondo è formulato da Marano come relazione di sé alla memoria". Le antiche bellezze rivivono in una multiforme contemporaneità, una ricerca che continua nei grandi fogli ad acquarello e matita degli anni '80.
Nel 1985 si tiene a Palazzo dei Diamanti una mostra che presenta il lavoro dell'artista nell'ultimo quinquennio. Nel 1986 realizza due opere di grandi dimensioni, gli Incolpevoli e la Caduta. I due quadri vengono esposti in Italia ed in Francia. Rappresentano una summa, un punto di arrivo: la sua pittura di impegno trova la massima espressione nelle figure simbolo del potere sociale ed intellettuale degli Incolpevoli, la severità dei quali, come afferma lo stesso Marano: "mima una strana assenza tanto da far pensare che il vero scopo non sia quello di vincere, bensì di poter rimescolare promiscuamente i ruoli nella costante accidentalità della fortuna e non c'è da stupirsi del fatto che se questa stessa filosofia dell'esistenza sfociasse nella vita soffrirebbe di una smagata assenza di etica". La mancanza di etica è "il grande male" che Marano ha fin qui stigmatizzato attraverso le sue immagini. Si apre quindi una nuova fase di ricerca che affonda le radici nel mito e nell'alchimia. È lo stesso Marano a raccontarlo in un suo scritto: "in quel particolare momento della mia vita di pittore, tutto preso dai dubbi, volli voltar pagina cercando un modo nuovo di fare pittura, che fosse più congeniale alle mie più profonde esigenze." Lo sguardo all'indietro è un ritemprarsi, un ritornare alle origini non inquinate del pensiero dell'uomo. Attraverso 40 piccole opere su legno si dipana una lunga serie di sogni allegorici che, scrive Duccio Trombadori: "lasciano pensare alla lenta meditazione di una nuova visione del mondo". In quegli anni si è fatta strada una nuova corrente, gli Anacronisti, pittori colti che si rivolgono al passato disdegnando la ricerca pittorica dell'epoca. Ma anche questa volta Marano conferma la sua natura da outsider. Non si unisce alla corrente della pittura colta, che a suo parere si prende troppo sul serio, anche nella ricerca di un linguaggio totalmente inattuale.
Le figure che popolano la mente ed il racconto pittorico delle tavolette sono infatti archetipi senza tempo. Sul finire degli anni 90 e nei primi anni 2000 riprende a dipingere tele di grandi dimensioni, preludio al ciclo delle Sirene, figure irridenti e beffarde che escono dal mare per vedere il mondo, parenti libere ed irrequiete delle fotomodelle, finalmente non mercificate e inafferrabili. Scrive Vincenzo Marano: "Occuparmi di loro è stato come ritrovare la mia terra, la Sicilia a Roma; pensarle arrampicate sugli scogli o innamorate, come racconta Tommasi di Lampedusa, di un giovane studioso ed al tempo stesso farsi scherno di lui. Come vorrei essere io su quella barca circondato da sirene irridenti!" In una recente intervista, così Marano sintetizza il suo percorso pittorico: "Per anni, ho creduto che la pittura potesse cambiare il destino dell'uomo, influire sull'andamento della società, denunciandone gli errori e contribuendo a renderla migliore. La pittura come atto di accusa ha avuto una parte importante nella mia produzione, una pittura esaltata dagli acrilici, dai bianchi e neri. Ma quando volevo prendermi una vacanza dall'impegno, mi rivolgevo agli amati Ingres e Leger collocandoli in contesti inusuali per poi tornare ad una pittura impoverita dall'acrilico, come i personaggi che rappresentavo. Poi un giorno il colore, l'olio, la tempera, prendono il soppravvento, il quadro non è più un documento o un atto di accusa ma un intrattenimento per l'anima. Il desiderio di cambiare il mondo si tramuta dentro di me nell'avventura di un viaggio attraverso i canoni del mito e della favola, il mio personale percorso verso la soggettività della rappresentazione".